Se non è ancora una diaspora, poco ci manca. Da qualche anno e ogni giorno di più è in atto il silenzioso ritorno in Italia dei nostri emigrati in Venezuela, dei loro figli e nipoti: intere famiglie che fuggono dalla grande crisi di questo grande e contraddittorio paese sudamericano, sospeso tra i proclami rivoluzionari di Maduro e del suo partito con la promessa di una società più giusta e una realtà che, nel racconto dei nostri connazionali che sono fuggiti, è un incubo di miseria e corruzione. Un delirio che minuto dopo minuto distrugge ogni speranza, martellando nella mente il chiodo di un solo pensiero fisso conficcatosi in un’ossessione, quella di riavvolgere il nastro delle proprie biografie personali o familiari e di tornare all’origine, al punto di partenza, con la certezza che, comunque vada, si approderà in un posto migliore di quello che si lascia. Il caso è giunto sulle pagine dei giornali e nelle cronache dei notiziari, spesso deformato dalla lente dell’ormai decennale polemica sullo “chavismo” e la sua eredità di oggi: se sia stato un bene diventato un male o se invece da noi sia arrivato da sempre il riflesso di un’allucinazione che ciascuno ha colorato con i suoi sogni, custoditi, come troppo spesso avviene, sulla pelle degli altri e a dispetto della verità, delle dure evidenze della vita da svegli. Non di questo, però, voglio parlare, ma di quanto ho visto e sentito in un piccolo angolo del Molise, la cui laboriosità sociale continua a sorprendermi ancora dopo anni di viaggi, incontri e racconti.
I numeri non sono sicuri, secondo una ricostruzione tentata da Michele Castelli, uno scrittore che vive a Caracas di cui in Italia conosciamo un libro di racconti che si intitola “Italiani mata burros”, con tante storie sui nostri migranti nel Venezuela degli anni cinquanta, gli italiani che vivono in questo paese registrati nell’elenco dei residenti all’estero sono circa 140 mila, una cifra che, tenendo conto di stime storiche, lascia presumere che i residenti veri sfiorino il mezzo milione, mentre gli oriundi in senso più generale oscillerebbero – a seconda delle fonti – da un prudente milione e mezzo ai quattro milioni e mezzo (su un totale di trenta milioni) di cui pure si è letto in qualche pubblicazione. Negli ultimi anni la diminuzione è però costante, difficile dire quanto ma c’è un bel po’ di sangue italiano nel milione di persone che, secondo l’Onu, hanno abbandonato il paese dal 2015 a oggi, in gran parte dirette verso altri stati del Sudamerica e gli Stati Uniti e una fetta anche da noi. Dei rientri e soprattutto dei rientrati italiani continua, però, a sapersi poco.
Dove vanno, cosa fanno, come vengono accolti, che storie si portano dietro o vogliono lasciarsi alle spalle? Una piccola parte di questo mondo si ritrova in Molise da dove provengono, se si dà retta ai calcoli di Castelli, 10 o 11 mila degli italiani che ancora risiedono in Venezuela, il Comitato Molise pro Venezuela, istituito dall’Associazione padre Giuseppe Tedeschi di cui parleremo più avanti, dice che sono tre volte di più e aggiunge che circa trecento – questo conto è più facile – sono quelli tornati, che troviamo adesso nei piccoli paesi dei loro nonni, ancora indecisi se fermarsi o riprendere la ricerca di una nuova, anche piccola, terra promessa. Per alcuni di loro essa ha già un nome, Monacilioni, un borgo di 590 abitanti su una collina di 590 metri a quindici chilometri da Campobasso anche se la strada che collega i due punti piena di curve e pendii fa pensare che siano di più.
Douglas e Andrea sono arrivati in Italia quattro mesi fa, vivono in una casa, vicina alla piazza di Monacilioni, che un privato, aderendo alla richiesta del sindaco, ha messo a loro disposizione con comodato gratuito. Lui ha ventisette anni, è nato a Barquisimeto, una città che dista cinque ore da Caracas. Andrea è di qualche anno più giovane, è nipote di un italiano che portò la famiglia in Venezuela, seguendo la rotta dell’emigrazione degli anni cinquanta, e impiantò un mattatoio dove macellava le bestie degli allevamenti. Hanno due figlie che quest’anno si iscriveranno per la prima volta a scuola, la grande alla prima elementare, la più piccola alla scuola materna. È stato per loro che hanno deciso di andarsene dal Venezuela, tornando nelle zone da cui il nonno di Andrea era partito. Douglas lavorava in una fabbrica di tubi, aveva uno stipendio ma non serviva a nulla, i supermercati erano vuoti e per arrivare a questo vuoto ci si doveva mettere in fila e restarci per ore, controllati da militari che decidevano le precedenze, è immaginabile sulla base di quali criteri. Andrea è infermiera professionale, lavorava in sala parto in condizioni di precarietà assoluta, persino con i cerotti contati, ricorda con amarezza. Per settimane hanno mangiato frutti di mango che “da noi – racconta – si trovano in abbondanza come le mele qui da voi”. Non è stato facile andare via, lasciare il resto della famiglia, Andrea ha un fratello, che lavorava in polizia e adesso è senza lavoro, e una sorella down, la madre è insegnante di sostegno, una specializzazione ottenuta proprio per seguire meglio la figlia. Prima o poi torneranno anche loro in Italia, Andrea e Douglas li aspettano. Intanto, però, l’importante è aver portato via le bambine; sanno che le giornate difficili non sono finite, bisogna trovare un lavoro ma comincia a tornare la fiducia, l’idea che con il lavoro si possa riuscire a stare meglio. Andrea dice che i venezuelani sono “calidi”, accoglienti, generosi, la miseria, però, ormai li sta trasformando, li porta a chiudersi, a guardare con sospetto il vicino. Succede quando il poco che si ha bisogna tenerselo stretto, per la propria famiglia. “Familismo morale”, per necessità, potremmo chiamarlo così.
L’incontro si tiene nella piccola ma luminosa sala consiliare del comune di Monacilioni, dalle finestrone alle spalle del lungo tavolo ricurvo che occupa un terzo dello spazio, mentre il resto è destinato al pubblico, si vede in una sola istantanea la storia di questo paese che negli ultimi due secoli è stato per due volte distrutto dalle frane ed è stato ricostruito ogni volta sempre più a monte, come se, spostandosi sulla sommità del colle, si imbrigliasse il rischio di un nuovo dissesto. C’è il sindaco Michele Turro, giunto ormai a conclusione del suo secondo e ultimo mandato, un pensionato che di mestiere ha fatto il responsabile di reparto della Fiat e dunque sa – come confessa a bassa voce – quanto valga saper gestire per obiettivi costruttivi le passioni, le voglie, le paure delle persone. C’è don Mauro, il parroco del paese, che si occupa soprattutto di raccogliere e spedire in Venezuela, via Stati Uniti, i medicinali a chi ne ha bisogno, e lamenta le lentezze degli uffici delle anagrafi dei comuni italiani nel rilasciare i certificati necessari per le pratiche per la cittadinanza, c’è Federico Petraroia, che in Venezuela faceva il trasportatore e che oggi dovrebbe sottoporsi – altro paradosso della sua condizione di re-emigrato – a un nuovo esame per prendere la patente adatta per guidare un’utilitaria, c’è Franco Cristofano, che è stato professore universitario di ingegneria civile e adesso si adatterebbe a ogni occupazione, c’è la moglie Anna che faceva la commercialista e che, mentre il marito dice “ci siamo riportati con noi trenta anni di lavoro in due bagagli” non riesce a nascondere la lacrima che le copre l’occhio, c’è Toni Pietracatella che è tornato in Italia tra i primi, cinque anni fa, ha aperto due autolavaggi a Campobasso e risponde continuamente al telefonino alle chiamate degli indaffarati dipendenti, c’è Anna Maria Evangelista che ci dice “sono venuta in Italia per amore diciotto anni fa” e oggi tiene la contabilità nella ditta di recapiti dove lavora il marito e spera di convincere il padre sessantottenne che ha ancora una officina in Venezuela a raggiungere lei e la madre a Toro, un paesino qui vicino, ci sono Andrea De Sanctise Douglas Flores di cui già conosciamo la storia. Il loro è un racconto collettivo, pieno di accuse, recriminazioni e nostalgie, “il nostro cuore sta in Venezuela” dice Federico, “perché è quello il paese della nostra giovinezza”. Franco dice che parlare della crisi in Venezuela è solo un modo di dire, “dalla crisi si esce, quella che c’è lì è miseria, miseria assoluta che fa morire”. E racconta: “ una mia vicina ebbe un’emorragia e l’ospedale organizzò una raccolta di sangue, risposero alla chiamata dodici persone, ma dieci vennero respinte perché le analisi rivelarono che erano diventate anemiche per colpa della denutrizione”. A nulla vale la mia cauta citazione di un documento firmato da un gruppo di italo – venezuelani schierati per Maduro, venuto fuori dalle mie perlustrazioni sulla rete, che racconta un Venezuela diverso, immerso nella lotta di classe ma libero. “Bugie dei pochi che stanno bene e che stanno in affari col regime”, replicano, con le parole di Franco ma con l’intesa di tutti, come se stessero rispondendo per l’ennesima volta a una argomentazione scontata, prevista. Meglio parlare di qua e di adesso. Per Federico il futuro in Italia può chiamarsi agricoltura, “noi sappiamo fare tutto, non vogliamo elemosine, chiediamo di lavorare e una possibilità c’è nei campi che adesso occupano poche persone solo perché sono destinati quasi tutti a grano, dove si ottengono le facilitazioni”. Anche per il sindaco questa può essere una strada, “la diversificazione e la scelta di colture ad alta intensità di occupazione”. “È un sogno – ammette, spegnendo un po’ il suo stesso entusiasmo – ma potrebbe anche essere un nuovo progetto”.
In questa stessa sala, lo scorso 28 maggio, il sindaco – che incide la data tra le memorabili della storia cittadina – ha convocato i suoi concittadini per illustrare un’idea. Quella di chiedere ai proprietari di case che non vivono più nel paese di concederle, gratuitamente per un certo periodo e poi con un affitto basso, alle famiglie venezuelane di origine italiana che sono rientrate in Italia o meditano di tornarci. Montecilioni, Toro, Cercemaggiore sono paesi che l’emigrazione ha svuotato, adesso possono tornare a riempirsi di una nuova gioventù che vuole cambiare segno al proprio destino. “Nel nostro territorio – spiega il sindaco – ci sono diversi appartamenti ricostruiti con i finanziamenti per il terremoto di sedici anni fa. Alcuni di questi sono da rifinire, mancano poche cose ma i proprietari sono andati via, non hanno più urgenza”. L’intenzione è di chiedere alla Caritas di Campobasso, che sta sperimentando iniziative di microcredito, di mettere i fondi necessari per completare gli appartamenti chiedendo come contropartita che vengano dati in affitto gratuitamente per i mesi necessari a scontare l’investimento effettuato. Una sorta di patto a tre, con il comune che fa da garante, la Caritas che offre il finanziamento, l’inquilino che si impegna a pagare l’affitto una volta superato il periodo del primo impatto con la sua nuova terra. Funzionerà? Qualche disponibilità è stata già manifestata, Douglas, Andrea e le loro figlie possono essere i primi anelli di una lunga catena. Altre case sono state costruite dal comune stesso, grazie a un finanziamento regionale di 600 mila euro a cui è stata aggiunta una quota di cofinanziamento di oltre 100 mila euro ricavati da un avanzo di di gestione, “una piccola impresa – sottolinea il sindaco – per un ente che ha un bilancio di 420 mila euro”. Anche questi appartamenti verranno assegnati alle famiglie più giovani. “Da qualche anno – dice ancora il sindaco – abbiamo invertito la tendenza allo spopolamento, ci sono bambini e nuovi iscritti a scuola”. I venezuelani possono essere una nuova, insperata, occasione, un dramma che si volge in bene, per tutti. Così hanno ragionato i cittadini chiamati in assemblea tre mesi fa, concedendo il via libera al progetto immaginato dal loro primo cittadino. Se si guarda alla geografia, potremmo chiamarlo “dagli Appennini alle Ande e ritorno”.
Elisabetta Brunetti, Anna Spina e Roberta Iacovantuono sono le giovani volontarie dell’associazione “padre Giuseppe Tedeschi”, un sacerdote, originario di Jelsi, missionario nei barrios di Buenos Aires, ucciso nel 1976, a quarantadue anni, da sgherri al soldo della dittatura militare. L’associazione, che è affiliata all’Auser, l’organizzazione di volontariato sociale fondata dal sindacato dei pensionati della CGIL, ha promosso il Comitato “ Molise pro Venezuela”, chiamando a farne parte anche alcuni venezuelani di origine italiana rientrati nel nostro paese e la responsabile dell’ufficio “molisani nel mondo” della Regione Molise. Il comitato cerca di facilitare il rientro in patria dei nostri emigrati che abbandonano il paese sudamericano nel quale vivono, spesso da più generazioni. Si occupa delle pratiche per la richiesta della cittadinanza italiana (per coloro che non hanno la doppia cittadinanza), del riconoscimento del titolo di studio, dei corsi di lingua italiana, delle collette per l’acquisto dei biglietti aerei. “Perché – si chiede Federico Petraroia, che si è stabilito a Cercemaggiore dove vive il ramo molisano della sua famiglia – lo stato italiano non organizza ponti aerei per far rimpatriare chi lo richiede e non ha i mezzi per farlo?”. Il comitato si occupa di tutto, cerca di dare risposte semplici a domande complicate, si batte per creare una rete che sappia offrire consulenze e aiuti agli italo – venezuelani e chiede ai patronati sindacali di creare uffici specifici. “Le richieste di rimpatrio sono tante e aumentano, c’è bisogno di chi se ne occupi a tempo pieno, con competenza e continuità, non solo in Molise”, dice Michele Petraroia, fondatore dell’Associazione padre Giuseppe Tedeschi, che è tornato con l’intelligente passione di sempre al sindacato, dopo dieci anni bene spesi da consigliere regionale. Elisabetta è laureata in scienze dell’amministrazione, Anna in scienze sociali, Roberta in scienze della formazione e dell’educazione in una società multiculturale, tutte e tre hanno fatto parte, per periodi diversi, della sua segreteria, e adesso continuano a essere al suo fianco in questa nuova epica molisana, quella del grande ritorno.
6 settembre 2018
Tarcisio Tarquini